Video di persone trasportate in ambulanza fatti circolare sul web. La caccia al nome del malato per darlo in pasto alla rete. Episodi più volte verificatisi in questi giorni di panico generale che spesso hanno messo da parte uno dei diritti tutelati dal nostro ordinamento, quello alla riservatezza, e in particolare con riferimento alle condizioni di salute del paziente.
Sul punto il Garante per la Privacy ha bacchettato anche gli operatori dell’informazione richiamando “al rispetto del requisito dell’essenzialità, astenendosi dal riportare i dati personali dei malati che non rivestono ruoli pubblici. Per questi ultimi, peraltro, nella misura in cui la conoscenza della positività assuma rilievo in ragione del ruolo svolto. E in ogni caso invitando ad evitare riferimenti particolareggiati alla situazione clinica di tutte le persone affette dalla malattia”. Un obbligo che lo stesso Garante ha chiarito “vige anche per gli utenti dei social, a cominciare da alcuni amministratori locali, che spesso diffondono dati personali di persone decedute o contagiate senza valutarne interamente le conseguenze per gli interessati e per i loro famigliari”.
Negli ultimi anni, del resto, abbiamo visto il diritto alla riservatezza del malato esplicarsi in più modi, per esempio con la mancata indicazione della precisa causa di indisposizione nei certificati medici inviati al datore di lavoro a giustificazione dei periodi di malattia. O sulle ragioni degli infortuni dei calciatori omesse nei comunicati stampa. E’ per la stessa ragione che l’identità dei pazienti risultati positivi al coronavirus viene spesso celata. A spiegare le fondamenta giuridiche di questo diritto è stata per Telebari la Prof.ssa Claudia Cascione del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari: “In Italia e in Europa vi è una normativa fortemente protettiva del controllo dei dati personali.”
Ma è possibile comprimere il diritto alla privacy per un interesse superiore? “Per i diritti relativi alla salute vi è un divieto generale di trattamento, con delle ovvie deroghe motivate dal consenso, da ragioni di interesse pubblico rilevante, di medicina preventiva o interesse pubblico nel settore della sanità pubblica. Questo non legittima chiunque a comunicare o diffondere i dati dei pazienti, ma legittima solo il trattamento da parte degli esercenti le professioni sanitarie o dai professionisti incaricati dalla Protezione Civile di tracciare il contagio.”
Ma il problema della gestione dei dati sanitari si è posto anche per l’adozione di app digitali per smartphone per tracciare i contagiati o i potenziali malati, sul modello per esempio adottato in Corea. Una strada possibile in Italia?
“La direttiva E-Privacy prevede la possibilità di introdurre sistemi di tracciamento o di identificazione dell’ubicazione previo consenso. Così come prevede la possibilità di una deroga per via legislativa laddove ci siano esigenze da tutelare come la sicurezza nazionale. In astratto è ammissibile l’introduzione di strumenti di tal genere ma non sull’imitazione emotiva di un modello straniero. Occorre una misura legislativa che chiarisca le finalità di questo trattamento massivo di dati, che rispetti il principio di proporzionalità tra mezzi utilizzati e fini da perseguire, che contenga la durata del trattamento e che contenga una serie di garanzie per i soggetti interessati (per esempio la possibilità di ricorrere in caso di violazione). Senza una legislazione di tal genere l’introduzione di modelli del genere è certamente illegittima e contraria alla normativa sulla privacy”.